Cultura e eventi

Omaggio a Leonardo nel giorno del 500° della morte

Forte dei Marmi. Il Museo Ugo Guidi – MUG di Forte dei Marmi realizza il 151° evento d’arte presentando l’esposizione di Dimitri Kuzmin dal titolo LEONARDO 500 – Esposizione di pittura in occasione del 500° anniversario della scomparsa di Leonardo da Vinci (1452 – 1519) a cura di Vittorio Guidi.

La mostra, con presentazione critica di Massimiliano Bordigoni Denaro, sarà inaugurata al Museo Ugo Guidi alle ore 17:30 di giovedì 2 maggio 2019, giorno di ricorrenza della scomparsa di Leonardo da Vinci.

Dimitri Kuzmin, artista russo, con la presente esposizione rende omaggio al genio di Leonardo, inaugurando la mostra nel giorno della sua morte e realizzando opere ispirate dall’osservazione delle opere del Genio.

La mostra è patrocinata delle istituzioni del Museo e dal Consolato Onorario della Federazione Russa in Pisa, da Russkaya Versilia e da Dimitri decorazioni.

Parte delle opere saranno esposte anche al Logos Hotel, via Mazzini 153, che sarà visitato dopo l’inaugurazione.

L’esposizione al MUG sarà visitabile fino al 26 maggio 2019 su appuntamento al 348020538 o museougoguidi@gmail.com. Mentre al Logos Hotel sarà sempre visitabile con ingresso libero.

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ANNOTAZIONI IN MARGINE ALLA MOSTRA DEL MAESTRO DIMITRI KUZMIN “LEONARDO 500”.

L’ammirazione o, meglio, quasi filiale devozione, del maestro Dimitri Kuzmin per Leonardo da Vinci sorge molto presto nella vita dell’artista italo-russo. Ancora ragazzo, infatti, in modo assai fortunoso (Dimitri Kuzmin – che risiede in Italia da circa venti anni dei quali gli ultimi dieci in Versilia dove opera – nasce e vive fino all’età di diciannove anni, in Romania, a Tulcea – località sul delta del Danubio, in cui, per motivi religiosi, dalla metà del diciottesimo secolo, si era stabilita una comunità russa –, quindi in una Europa orientale improntata ai dogmi ed ai rigidi dettami del socialismo reale, tra i quali l’ateismo di stato (e dove ben poco giungeva dall’”occidente” capitalista, nella forse utopica concezione di una società che si prefiggeva di assicurare maggior giustizia per l’uomo), riesce a procurarsi una illustrazione, neppure fedelissima, raffigurante il Cenacolo vinciano, riproducendolo, di nascosto, su tela. Il diploma in ingegneria elettromeccanica del maestro Kuzmin, inoltre, che segue gli studi al collegio artistico, di per sé, a nostro avviso, rafforza i punti di contatto e le analogie (peraltro Kuzmin è artista poliedrico, pittore, scultore, maestro iconografo, versato nel restauro e nelle arti musive) con il pur inarrivabile genio di Anchiano. E ciò anche perché quel diploma, unitamente alla passione per la chimica, la fisica e l’astronomia, potrebbe riflettere, sempre a parer nostro, la relazione, forse solo apparentemente antitetica, che corre tra l’imaginifica poetica artistica e lo studio dei fenomeni codificati dalla scienza moderna. E’ universalmente noto che Leonardo fu non soltanto un insigne artista, pittore sublime e scultore, ma anche inventore e genio versatilissimo, capace di cimentarsi, in pratica, in ogni campo dello scibile: meccanica, anatomia, astronomia, aerostatica, geologia, botanica, paleontologia, musica, idraulica, fisica, balistica, architettura, ingegneria sia civile che militare, citando esempi in modo chiaramente non esaustivo, e rinviando alle raccolte dei suoi appunti, note e disegni, i suoi assai conosciuti “Codici”, che sommano migliaia di pagine, nei quali sono contenute anche molte sue intuizioni, anticipatrici di future scoperte e realizzazioni della scienza e della tecnica. Leonardo è quindi anche uomo intimamente mosso allo studio più approfondito della natura, onde discernere le cause più remote e prime dei fenomeni naturali, allo scopo di scoprire le leggi che li regolano. “La natura – egli afferma – è piena d’infinite ragioni che non furono mai in esperienza. Nessun effetto è in natura senza ragione; intendi la ragione, e non ti bisogna esperienza”. (1). E non avendo, a differenza degli altri esponenti dell’umanesimo, una cultura letteraria legata ai canoni del mondo classico (egli stesso, nel “Codice Atlantico”, si definisce “omo sanza lettere”; il che potendo anche rappresentare, a nostro avviso, un vantaggio, in assenza di ostacoli quali indubbiamente possono divenire quelle sovrastrutture concettuali precostituite, schematismi e formae mentis preconcette, che inevitabilmente si tendono ad acquisire con lo studio), quindi, anelando alla conoscenza, vi perveniva attraverso le sue ricerche ed osservazioni empiriche. Per questo egli è anche ritenuto il fondatore del metodo sperimentale o scientifico che dir si voglia, e può essere legittimamente definito uno dei padri della scienza moderna. Ovviamente, quanto cennato poco sopra non può adeguatamente illustrare l’ampiezza del suo intelletto e del suo genio; d’altro canto, sembra quasi superfluo sottolinearlo, su Leonardo e la sua opera, da secoli, hanno indagato funditus, e discettano compiutamente ancora ai giorni nostri, studiosi finissimi. Piuttosto qui, mentre vogliamo onorarne la memoria, vorremmo esprimere alcuni pensieri, frutto di personali riflessioni, in merito ad aspetti, senz’altro secondari, concernenti determinate sue opere, di cui proclamiamo fin d’ora la più totale opinabilità. Venendo subito in medias res, sicuramente Leonardo, pur così intento all’osservazione della natura ed allo studio empirico di questa (ma probabilmente anche in virtù di ciò; forse anche per quella irrefutabile relazione che sussiste tra il particolare e l’universale, tra microscopico e macroscopico), percepiva un’impronta, un attributo divino nell’arte. Citiamo, infatti, dai suoi “Pensieri”: “Il disegno è di tanta eccellenza, che non solo ricerca le opere di natura, ma infinite più che quelle che fa natura (…) E per questo concluderemo non solamente essere scienza, ma una deità essere con debito nome ricordata, la quale deità ripete tutte le opere evidenti fatte dal sommo Iddio”. Ed ancora: “Lo corpo nostro è sottoposto al cielo, e lo cielo è sottoposto allo spirito. I sensi sono terrestri, e la ragione sta fuori di quelli, quando contempla. Naturalmente li omini boni desiderano sapere ”. (2). A ciò ci sembra opportuno collegare le parole dedicate dal Vasari a Leonardo, nella descrizione fattane nelle “Vite”, opera sua famosa (consultata nella ristampa dell’edizione Torrentino del 1550): “Grandissimi doni si veggono piovere da gli influssi celesti ne’ corpi umani molte volte naturalmente, e sopra naturali strabocchevolmente accozzarsi in un corpo solo bellezza grazia e virtù, in una maniera che dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azzione è tanto divina, che lasciandosi dietro tutti gli altri uomini, manifestamente si fa conoscere per cosa (come ella è) largita da Dio, e non acquistata per arte umana. Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale oltra la bellezza del corpo, non lodata mai a bastanza, era la grazia più che infinita in qualunque sua azzione; e tanta e sì fatta poi la virtù, che dovunque lo animo volse nelle cose difficili, con facilità le rendeva assolute (…). E veramente il cielo ci manda talora alcuni che non rappresentano la umanità sola, ma la divinità istessa, acciò da quella come da modello, imitandolo, possiamo accostarci con l’animo e con l’eccellenzia dell’intelletto alle parti somme del cielo (…). (3). Ecco allora che, laddove Leonardo ravvisa esplicitamente un attributo divino nell’arte, il Vasari afferma che ogni azione di Leonardo appare “largita da Dio”, e che egli è “veramente” inviato dal cielo a rappresentare non solo l’umanità, ma anche la stessa divinità, onde fungere da “modello”, la cui imitazione può avvicinarci “con l’animo e con l’eccellenzia dell’intelletto alle parti somme del cielo”. Ma quel riferirsi del Vasari a “la bellezza del corpo, non lodata mai a bastanza”, congiunta alla “grazia più che infinita in qualsiasi sua azzione”, e a “tanta e sì fatta virtù” ci induce invero a pensare alla possibilità di riconoscere in Leonardo, incarnandola, anche quell’idea di kalokagathìa, quella compresenza biunivoca di “bello” e “buono”, di virtù, qualità e capacità, al contempo fisiche ed estetiche ed interiori ed etiche, cioè quell’ideale di perfezione, cui doveva tendere l’uomo, per raggiungere il suo pieno compimento, come teorizzato dagli antichi greci, e, com’è ovvio, sicuramente noto agli umanisti. Ideale, la cui summa concettuale è espressa, nelle “Enneadi”, dal filosofo neoplatonico Plotino. Ed è, infatti, propriamente davvero una unione simbiotica di bellezza esteriore ed interiore che ci sembrano riflettere e trasmettere le opere dell’eccelso umanista. Perché, anche riconoscendo fondamento alla assai conosciuta concezione di Platone dell’arte come mìmesis, per cui l’arte è copia di cose che, a loro volta, sono mere riproduzioni delle idee perfette (anche se occorre senza dubbio tener conto della peculiare weltanschauung del filosofo ateniese), l’esperienza ci insegna che ogni artista possiede, in modo innato, delle facoltà, per certi versi davvero magiche, una naturale sintesi di pathos, sentimento irrazionale, ordinata anarchia dell’anima e di intuitio intellectualis, che gli permettono, attraverso la propria arte, di squarciare il cosiddetto “velo di Maya”, e raggiungere l’essenza delle cose, la loro intrinseca realtà. Il maestro Kuzmin, nella sua mostra personale dedicata a Leonardo nella ricorrenza del cinquecentesimo dalla morte avvenuta ad Amboise, ha voluto realizzare delle copie di alcune celebri opere leonardesche, da aggiungere ad una copia della “Gioconda”, già realizzata in precedenza, nonché al sopra cennato “Cenacolo”; con le quali ha dato ulteriormente prova della sua maestria, e delle sue qualità e capacità tecniche (e quasi proviamo un poco di metus reverentialis a domandargli circa l’emulazione dello “sfumato vinciano”, ed a fargli rivelare altre sue tecniche che potrebbero essere legittimamente “segrete”). In mostra sono anche alcuni disegni eseguiti a carboncino, suoi studi giovanili raffiguranti teste di cavalli, ispirati al cartone attribuito al Rubens, liberamente ricavato, a sua volta, da una copia della “Battaglia di Anghiari”, l’affresco perduto del Salone dei Cinquecento, a Firenze. E sono in mostra anche alcune magnifiche icone bizantine (Dimitri Kuzmin, ricordiamolo, è anche maestro iconografo).
Senza dubbio restiamo letteralmente incantati innanzi alla “Vergine delle rocce”, peraltro realizzata dal maestro Kuzmin richiamandosi ad alcuni dettagli della versione londinese conservata alla National Gallery. Tuttavia, nel contemplare i volti della “Gioconda”, della “Sant’Anna” (che rimanda alla “Sant’Anna con la Vergine, il bambino e l’agnellino”), e del “San Giovanni Battista”, ci sembra di ravvisare, per l’ennesima volta, come già osservando gli originali (ma è questo, come sopra evidenziato, un parere affatto personale), delle similitudini nei tratti dei volti dei tre personaggi femminili e del Battista. Similitudini che, da tempo, ci inducono a pensare che forse quei volti vogliano suggerirci un “quid pluris”, un qualcosa di più rispetto a ciò che appare, a ciò che è raffigurato e palesato; che, in un certo qual modo, sommessamente, vagamente, vogliano suggerire una sorta di indicazione, indurre chi guarda ad intuire magari un percorso interiore, tale da sospingere oltre i dati apparenti, meramente fisici, materiali; a presagire idealmente un qualcosa di assimilabile ad un fiume carsico, sotterraneo, percorrendo il quale si oltrepassa il limite di quei dati puramente fisici e materiali. Quei volti, giudizio – ribadiamo – personalissimo, potrebbero forse voler trasmetterci un pensiero celato, magari rammentarci possibilità di indagare vie che vanno oltre l’apparenza dei dati puramente sensori. La stessa tecnica usata da Leonardo nel dipinti, che tanta ammirazione ha suscitato nei suoi contemporanei; quello sfumato, che insieme a linee più morbide, pur certamente una evoluzione per il tempo, si mostra più adeguato per raffigurare sembianti femminili; quella “certa oscurità”, di cui pure dice il Vasari (4); inoltre, quanto egli stesso afferma nel suo “Trattato sulla pittura”: “Tu, pittore, per essere universale e piacere a diversi giudizi, farai in un medesimo componimento che vi siano di grande oscurità e di gran dolcezza di ombre, facendo però note le cause di tali ombre e dolcezze”… “quando vuoi ritrarre uno, ritrailo a cattivo tempo, sul far della sera”… “Pon mente per le strade sul fare della sera ai visi di uomini e donne, quando è cattivo tempo, quanta grazia e dolcezza si vede in essi.” (5); nella pratica, ci appaiono assai utili in funzione di taluni elementi, a nostro avviso, archetipici, che ci pare di intuire in quei dipinti cui abbiamo accennato poc’anzi, e che proveremo ad interpretare, ai fini della nostra ipotesi. Parafrasando il celebre motto attribuito al Vasari, pur su un piano diverso, anzi diametralmente opposto, quei volti potrebbero alludere ad un “cerca/trova”; un invito, quindi, a guardare oltre il campo immediato delle parvenze della natura e della materia, come esse giungono a noi attraverso i loro sembianti. E cosa c’è “oltre” tutto ciò? la “metafisica”, per usare un termine filosofico? forse, ancor più appropriatamente (essendo Leonardo, come detto, “omo sanza lettere”, che preferisce l’esperienza a teoremi e schemi prefissati e percepisce il divino nell’arte, quindi nella natura), una dimensione ulteriore alle tre che definiscono il mondo materiale ed in virtù delle quali ogni cosa esistente in natura può divenire oggetto di misurazione e quantificazione? una dimensione che travalica il limite della materia, e si avvicina a quella, superiore, immateriale, intangibile dello “spirito”?. Abbiamo detto del profondo attaccamento che lega il maestro Kuzmin all’incommensurabile Leonardo. Forse, a nostro parere, uno dei motivi più intimi consiste proprio in questo percepire, magari pur del tutto inconsciamente, da parte del maestro italo-russo, quell’aspetto, che, come personale convinzione, abbiamo poco sopra voluto riferire. E questo, tanto più, in quanto sappiamo della profonda ed al contempo genuina – e tanto più profonda, in quanto genuina – spiritualità dell’anima slava. Non è forse casuale il fatto che il maestro Kuzmin, come detto, sia anche versato nell’arte iconografica, per la quale è richiesto non solo la padronanza di tecniche e regole peculiari e rigorosamente prestabilite, ma soprattutto, come requisito essenziale quanto indefettibile, quello della propensione alla spiritualità. L’icona, pur nella sua statica bidimensionalità, partendo dal nucleo centrale circolare, che ne costituisce il focus, irradia verso chi la osserva, come una luce, la cui sostanza, ad un tempo teologica e liturgica, è affatto spirituale. Allo stesso modo, quei volti di Leonardo, che hanno indotto quelle nostre sensazioni, traendo linfa e vigore da quella “certa oscurità”, ripetendo l’espressione del Vasari, che Leonardo usa nel dipingere, potrebbero forse voler trasmettere un messaggio recondito, arcano, criptico? Rinviare, quindi, chi li osserva a quell’“oltre”, che volge nell’etereo campo dello spirito? Il San Giovanni Battista, già con quel particolare gesto della mano, evoca in noi la reminiscenza di certe espressioni contenute nel “Sepher Ha – Zohar”, il “libro dello splendore”, testo centrale della Kabbalah, per cui tutto ciò che è quaggiu’ non è che un riflesso del mondo superiore; ma nel quale si afferma anche che mondo superiore e mondo inferiore sono mossi da influssi reciproci. E così, quei particolari tratti androginici del volto potrebbero forse voler alludere al “Rebis” alchemico, alla “Pietra Filosofale”, alla “Pietra Cubica”, all’”Oro dei Filosofi”? Sappiamo per certo che Leonardo conosceva l’alchimia (non certo in quella accezione per cui, ai giorni nostri, è ai più nota, cioè quella più esteriore e materiale della trasmutazione dei metalli, pertanto una specie di chimica prescientifica). Potrebbe, allora, provando a cimentarci a decrittare quei segni – a nostro parere, come detto – criptici, aver voluto raffigurare un volto mediante il quale alludere ad un essere capace di realizzare in sé il compimento della “Grande Opera” alchemica, che, per mezzo del processo di trasmutazione prodotto dal solve et coagula, culmina, e si conchiude, appunto nella coincidentia oppositorum, nell’unione degli opposti, cioè della materia con lo spirito, del cielo con la terra, della luce con le tenebre, del maschile con il femminile, dell’energia virile con la sensibilità femminile? E l’ineffabile sorriso della “Gioconda”, con quella pacatezza che sembra discendere da un profondo moto dell’anima, potrebbe disvelare il suo enigma plurisecolare proprio seguendo la medesima interpretazione, e quindi mostrare il compiacimento di un essere che ha finalmente raggiunto l’Arcadia? Anche le quattro figure ritratte nella “Sant’Anna con la vergine, il bambino e l’agnellino” potrebbero forse simboleggiare significati altrettanto reconditi? Potrebbe forse Anna (nome ebraico, ma esattamente coincidente con quello di una antica divinità di latini, etruschi ed altri antichi popoli italici, legata al perenne rigenerarsi della natura), nome palindromo, che riecheggia di per sé l’”alfa e l’omega”, il continuo concatenarsi dell’inizio con la fine, simboleggiare l’eterno rinnovarsi della vita? Sulle sue ginocchia, Maria, che è anche “stella del mare” o “goccia del mare”, comunque legata all’elemento acqueo della possibilità e della fecondità, donna che dona salvezza, ma anche sede della sapienza (e l’elemento femminile, portatore di sapienza, la “sapienza santa”, “Sophia” che è la “Gnosis”, una sapienza illuminante, “Madonna intelligenza” usando un termine stilnovistico, è fondamentale per il passaggio dalla prima fase della “Grande Opera” alchemica, la “Nigredo” o “Opera al Nero”, – contrassegnata dalla “materia”, corrispondente all’”Ego individuale” -, al compimento della seconda fase, l’”Albedo”, l’”Opera al Bianco”, definita anche fase” della donna” o “della Luna”). Mentre, en passant, ci sembra di poter notare anche una successione matrilineare, che ci rammenta una possibile allusione al matriarcato, l’affermazione del feminino sacro ed eterno; eterna scaturigine della vita. Ma dobbiamo dire anche che la “Grande Opera”, il Magnum Opus alchemico, con le sue tre fasi principali, ci ha sempre fatto riaffiorare alla mente i significati simbolici, espressi in via allegorica, insiti nelle tre cantiche dell’opera magistrale dell’archipoeta Dante. In Beatrice, infatti, limitandoci a qualche cenno in un tema di per sé degno di più ampia disamina, ci pare di scorgere analogie con la “donna”, tanto indispensabile per l’”Albedo”; così, nel Doctor mellifluus, Bernardo di Clairvaux, San Bernardo, colui che ha delineato la “regola” dell’Ordine del Tempio, quindi dei cavalieri Templari, quei monaci-guerrieri, che assommano in sé forza spirituale e materiale, ci sembra di vedere assonanze con quella “forza”, che ha ruolo fondamentale nella terza fase della “Grande Opera”, la “Rubedo”. Quindi, la Vergine (che potrebbe richiamare, per i suoi attributi, una grande, potente divinità protomediterranea, la Magna Mater, la Grande Dea Madre, madre di tutti gli dei e matrice di ogni cosa, che genera gli esseri viventi, quindi Iside, che genera Horus, Diana/Artemide la “casta”, tutte immancabilmente raffigurate con la falce lunare), con suo figlio, il “puer”, il bambino, il “Logos” divino, che diverrà l’“Agnus”, l’Ariete, che per mezzo del “fuoco” catartico, rigenererà il mondo; impersonificazione del “messiah” apportatore di pace, per gli ebrei; il Cristo, il Salvatore, con il suo messaggio di salvezza racchiuso nel mistero pasquale, per i cristiani, richiamano immancabilmente alla nostra mente i versi della quarta egloga delle “Bucoliche” del poeta e vate Virgilio: “Sicilides Musae, paulo maiora canamus:/non omnis arbusta iuvant humilesque myricae;/si canimus silvas, silvae sint consule dignae. Ultima Cymaei venit iam carminis aetas:/magnus ab integro saeclorum nascitur ordo./ iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna;/iam nova progenies caelo demittitur alto./Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum/desinet ac toto surget gens aurea mundo,/casta fave Lucina: tuus iam regnat Apollo.”“Cose cantiamo più grandi, Sicule Muse:/non piacciono gli alberi a tutti né i tamarischi umili;/e allora cantiamo le selve, e siano le selve degne di un console. L’ultimo tempo è venuto del carme cumano:/una grande serie di secoli nasce da capo./Ritorna la Vergine, il regno ritorna di Saturno e nuova progenie scende dal cielo./Al nascente fanciullo – per cui scompare dal mondo la stirpe di ferro e quella risorge dell’oro – guarda benigna, casta Lucina: già regna il tuo Apollo.” (6). Una nuova aurea aetas, una novella età dell’oro, quale quella profetizzata da Virgilio, è simbolo di un rinnovamento radicale del cosmo; quindi, di una rinnovata umanità, di un uomo nuovo. Come il “puer”, il “fanciullo”, attesta il rinnovamento ciclico del cosmo, e quindi è fonte dell’avvento della nuova era; così, anche per la stretta relazione sussistente tra “microcosmo” e “macrocosmo”, il compimento della “Grande Opera” alchemica, suggellandosi nella “Rubedo”, l’”Opera al Rosso”, detta anche fase “del Fuoco” o “del Sole”, in cui è richiesta una erculea potenza virile, trasmutando l’individuo capace di attuarla operando in sé una palingenesi, darà la luce ad un uomo nuovo, l’uomo della nuova era, che non è altri che l’uomo tornato ai primordi, l’imperturbabilmente felice essere dell’Eden. Ci piace pensare, certamente con grande presunzione, ma è l’ipotesi che abbiamo da subito denunciato come assolutamente opinabile, che questo potrebbe essere il messaggio che Leonardo, velatamente, ha voluto lasciarci come retaggio; e lo ha fatto attraverso quei dipinti, che trovano il loro compendio nell’atemporale, imperscrutabile sorriso della “Gioconda”, che, quasi a mo’ di bonaria sfida, pare appena sussurrare: intelligenti pauca.

MASSIMILIANO BORDIGONI DENARO

note bibliografiche

1) RUSSO LUIGI : I Classici Italiani, Vol. I, parte II, Sansoni Editore, Firenze, 1961, pag. 1173;
2) RUSSO LUIGI : Op. cit., pag. 1189;
3) VASARI GIORGIO : Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri (nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze, 1550), Einaudi Editore, Torino, 1986, pag. 545 ss.;
4) VASARI GIORGIO : Op. cit., pag. 555;
5) RUSSO LUIGI : Op. cit., pag. 1194 ss.;
6) VIRGILIO : Tutte le opere, Versione di Enzio Cetrangolo, Sansoni Editore, Firenze,1966, pag. 66 ss

Il MUG ha il sostegno della Fondazione Alimondo Ciampi onlus Signa, del Logos Hotel, della Fondazione Romualdo del Bianco Firenze.

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