Politica

“Amore emana”, dialogo in versi sull’amore

Per prima cosa viene lo stupore. Dinanzi a una poesia così ricca, viva, immaginosa.
Qui Anila tenta un’opera impossibile, una sorta di dialogo in versi sull’amore – un dialogo di cui lei è voce e anche destinataria, in una furiosa corsa tra specchi e rifrazioni di sé.
Un libro sapienziale, dai toni a tratti filosofici e didascalici, ma innanzitutto un libro che erompe da dentro una vissuta esperienza d’amore indagata con animo incandescente e ciglio asciutto. Mai svenevole, mai intimistico. Il contrario di qualsiasi corrente è usuale diario d’amore.
Il lettore potrà essere quasi soverchiato dalla forza, dal battito, dalla frequenza della voce. Oppure ferito da schegge lucenti e aspre di una poesia che si avvicina più alle capacità fantastiche di una Marianne Moore che agli esangui diarietti di poetesse oggi di moda.
Plotino, certo, e anche la precedente platonica riflessione su Eros. Ma in queste pagine di strana poesia troverete soprattutto il cuore e la mente innamorata di una donna che si apre verso il proprio mistero più profondo, alla ricerca di una vocazione ulteriore. Qui si attraversano, come direbbe Rimbaud, “i mille amori che mi hanno crocefisso” e non per stendere una cronaca sentimentale, ma per afferrare la mandorla di fuoco che si cela in tale sofferenza e per scoprire a che vocazione chiama.
La “emanazione” dell’amore, figura verbale e metaforica che percorre e compie il libro, è una sorta di azione pura, di atto senza più attrito, senza più necessità ermeneutica e etica, una modalità assoluta e indipendente.

Ecco Padre lo so che mi consegni all’amore
per farmi la tua esperienza nel telaio ardito
siamo cicatrici prolungati di volto
dove sono finite le corde?
solo chi ha toccato la soglia di sopportazione
conoscerà la fame dell’infinito
l’abitudine è l’infinito
prendi il dolore mettilo sul cavallo
dalle una strada nuova, una valle all’ebbrezza
una follia di vertigine sacra
una croce di bene alla marcia tarantola
e se riesci a sopravvivere
a increspati pensieri dove cadi
se non abbandoni il fango ma lo onori
potrai toccare l’eterno
quando il ramo sbatte il pergolato
a intonare un canto alto del corpo

Se mi devi amare sappi
ecco io nacqui dall’orgoglio
nell’ora della matematica degli alberi
e la noia gioca a dadi e tutte le volte
perde di sbieco l’eco
Tu vieni in me con le foglie
e rinasci cratere
riempi i tuoi vuoti con la gente
i fiocchi di neve narcisi
e mi dici che sei generoso con gli estranei
riesci a sentire il tuo silenzio al galoppo?
riesci ad essere generoso con l’Uno
folle come la noia
grato ad un cenno di vento che non c’è
per moltiplicare la soglia dell’infinito
e avere il volto?
Perfino la pietra e un cane sono un abbraccio di vento

Basta una poesia così per intendere di che pasta ê fatto questo libro di una poetessa barbara è concentrata. Lei batte sulla lingua, su una lingua imparata, resa necessaria dalla vita, come su uno strumento che deve rilasciare scintille, suoni, sensi. E che deve torcersi, o improvvisamente allinearsi come acciaio o costellazione di pianeti, una lingua come poche altre volte percorsa è messa alla prova. Certo, in questo lavoro sulla lingua conta la “barbara” estraneità della poetessa alla lingua che ora abita, ma credo sia ancor più attivo un forte e vivo principio poetico, ovvero di formazione di una lingua.
Se infatti si supera il primo velo, o chiamiamolo cascata, di parole, di immagini di questo genere di poesia, ci si accorgerà che esiste un lessico profondo, una sorta di alfabeto immaginario e linguistico che il lettore può rintracciare, fatto di presenze vegetali, animali, di metafore della pietra, del mare. Insomma la lingua adeguata per un dialogo tra il Padre e la sua prediletta.
Perché qui sta il punto, violentissimo e scandaloso della voce di questa poetessa fuori dalla poesia come là si conosce di solito. Lei è la prediletta che alita in faccia a Dio come un lupo femmina i suoi latrati o offre le sue rose. Sa di poterlo fare. In piedi, diritta, gli occhi accesi. In una posizione di nessuna sottomissione. Barbara, cristiana e antica. Pre-ellenistica, prepoetica. Vicina alle voci di pizie, maghe, erinni, o sibille. Qualcosa di femminile e cronio. Ma che non si accontenta di presentarsi magari riesumando l’armamentario di una tradizione di simboli e riti, no, cerca piuttosto la riconquista del livello di interlocuzione attraverso una nuova lingua, una nuova furia, un nuovo alfabeto. Pretesa, dicevo, scandalosa e non certo esente da rischi altissimi di fallimenti o di sbandate. Ma finalmente, viene da dire, una poesia che rischia qualcosa di più della propria posizione nella letteratura, o di un vanitoso riconoscimento nella cerchia mesta dei letterati.
No, qui la urgenza è suprema. E supremo il rischio.
Vorremmo leggere più libri così.

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