Cultura e eventi

Racconti in quarantena – Peppino “e che”

di Mario Narducci

Peppino era un semplice che già in vita era diventato leggenda. Dei semplici aveva quel tocco di ingenuità che rifiuta ragionamenti astrusi e semplifica le contorsioni dei sapienti che non vogliono far capire fino in fondo quel che dicono, per essere in grado poi di smentire ogni cosa e di imputare i propri errori agli altri. Della leggenda aveva la riconoscibilità dei modi, la presenza invasiva, l’aneddotica che infiorava le rimpatriate dei gruppi cittadini; l’essere diventato oggetto di imitazioni bonarie, il suo stare nell’aria anche quando non c’era, come uno spruzzo di spray di cui tutti possono godere, anche ad ore trascorse.

L’odore di Peppino era quello delle sigarette, rigorosamente senza filtro come usava ai suoi tempi, quando le tabaccherie avevano poco più delle Nazionali dall’involucro sgualcibile e il massimo della trasgressione erano le micidiali Mentola e le piatte Edelweiss dalla scatola quadra. Come tutti i semplici che percorrevano chilometri a piedi per le vie del centro in cerca di un sorriso e di un obolo bonario, Peppino aveva sempre una sigaretta penzoloni tra le labbra accortamente serrate, anche quando si intratteneva a parlare con qualcuno. Non ho mai capito perché i semplici fumino tanto. Quelli che oggi sono accolti in case-famiglia e soprattutto quelli che ieri provenivano dall’ex manicomio dove tornavano a sera in quella che era diventava, per chi non aveva famiglia, casa unica d’accoglienza.

Forse il fumo, per loro, era un vizio necessario, un modo per tenerli a bada senza investire in strutture liberanti davvero, un sostituto del seno materno, che molti di loro non avevano mai succhiato. Peppino, però, non apparteneva alla schiera degli esclusi, degli isolati, dei personaggi minimi assunti dalla città a patrimonio evanescente, dei titolari della pietà altrui che trasformava l’iniziale carità in amicizia contenuta e sguardo indulgente. Perché Peppino era di ben altra pasta.

Intanto apparteneva ad una delle famiglie più in vista e professionalmente conosciute della Città. Poi perché era sempre ben vestito, anche se strati di cenere si accumulavano in poche ore sulla cravatta fino ai pantaloni. Infine perché egli non era considerato un intruso, ma un compagno di passeggio e di chiacchiere, anche se non ci pensava due volte a piantarti in asso, all’improvviso, quando l’umore mutato lo portava altrove, magari in un altro gruppo che in quel momento gli andava più a genio.

Ma Peppino era ben altro ancora. Amico di tutti, non aveva riguardi per nessuno ove fosse stato oggetto di offese che poi erano piccoli, involontari sgarbi, per lui insormontabili. I più anziani ricordano quando in tempo di tesseramento dei Partiti, lui voltasse le spalle alla dirigenza democristiana locale per trasmigrare nel Movimento Sociale e recapitare le tessere ai soci. Il suo era il tempo delle serate danzanti e dei veglioni al Grand Hotel, annunciati con il richiamo roboante di ricchi premi e cotillons.

Peppino era immancabilmente chiamato dagli organizzatori, uomini dello sport e studenti universitari, per vegliare sugli ingressi abusivi. Senza regolare biglietto non passava nessuno, fosse stato il Presidente della Repubblica. Stessa cosa allo stadio per le partite di rugby o per incontri di pugilato. Se gli accadeva d’essere aggirato, entrava nell’agone e sospendeva gli incontri fino a che il portoghese non era stato rintracciato. Solo un po’ su di peso, aveva l’andatura “nnazzicante” propria di chi ha i piedi piatti. Aveva anche frequentato la scuola, si diceva, fino al ginnasio.

Raccontano che, per un tema su Mussolini, mancò poco non lo espellessero da tutte le scuole del Regno per le male parole indirizzate al duce. Il provvedimento rientrò quando l’ispettore scolastico si vide davanti l’imputato e capì. Non stava mai zitto, anche se aveva un eloquio rallentato e frammisto di “e che”. Era un umorista nato, forsanche involontario, sostenuto comunque da una logica ineccepibile.

“E questo per chi è?”, rispose allacciandosi la patta a chi gli faceva notare che era entrato nel bagno delle signore. Quando, sempre a scuola, gli chiesero il funzionamento del campanello elettrico che era sugli usci delle case, e alle sue sbarellate spiegazioni il professore ebbe l’ardire di opporre un candido “e se manca la corrente?”, “bussi coi piedi”, rispose Peppino senza perdersi d’animo.

Come la volta che gli fecero notare l’incongruenza di grattarsi il capo senza togliersi il cappello, e lui non ci pensò due volte a rispondere che non ci si cala i pantaloni quando prude il sedere. Aveva la mania, Peppino, di trattare piccoli affari per arrotondare l’appannaggio di famiglia. Il maggiore consisteva nella vendita di pietrine per gli accendini che allora non erano usa e getta. Sapeva però che il Monopolio vegliava anche su quelle e mentre concludeva affari si guardava intorno circospetto.

“Non le voglio, non le voglio!” urlò una volta all’avventore che le stringeva già in mano, mentre spuntava da un cantone una guardia di finanza che andava per i fatti suoi. Tra le prime notizie che ebbi al mio ritorno all’Aquila, ci fu quella della morte di Peppino, del quale non avevo avuto animo di chiedere informazioni, temendo la risposta. Non volli nemmeno sapere quando e come se ne fosse andato. Perché lui è sempre una presenza viva, con la sua andatura “nnazzicata” da piedi piatti, il suo eloquio inceppato, l’odore acre di fumatore accanito dalle dita ingiallite, la ricca aneddotica che ci si tramanda di padre in figlio e che immancabilmente rifiorisce nelle cene tra amici, appena il bicchiere giusto scioglie la lingua e il cuore e una vena di nostalgia spezza le risate che però non sono più quelle. Anche perché nessuna memoria, nessuna eredità, nessuna copia conforme potrà mai restituire alla città il personaggio originale che ha dato volo e sana allegria alla nostra giovinezza spensierata.

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