Cronaca

Pescara, commemorazione di Emilio Alessandrini

Pescara. Omaggio alla memoria e alla figura del magistrato Emilio Alessandrini (1942-1979), in una cerimonia a piazza Unione alla presenza delle massime autorità civili e religiose e nel pieno rispetto delle normative anti Covid-19.

Tra i presenti, il figlio Marco Alessandrini, ex sindaco di Pescara, e la vedova Paola.

Questo il ricordo del sindaco Carlo Masci:

«Emilio Alessandrini nella sua carriera di uomo delle istituzioni aveva dimostrato in ogni occasione di non fermarsi alle verità apparenti e neppure alle mezze verità: lui, attraverso gli strumenti del diritto, cercava la verità. E questo non gli poteva essere concesso da coloro che combattevano lo Stato e il diritto. Erano trascorsi appena 5 giorni dall’omicidio dell’operaio Guido Rossa da parte delle Brigate Rosse. Quel 29 gennaio 1979 Emilio Alessandrini aveva appena accompagnato il figlio Marco, 8 anni, alla scuola elementare di via Colletta a Milano, con la sua Renault 5; un gruppo di fuoco di Prima Linea lo stava aspettando all’incrocio tra via Umbria e via Tertulliano, al semaforo. I colpi di pistola del commando di terroristi capeggiato da Sergio Segio e Marco Donat Cattin spezzarono la sua vita, a 37 anni, di cui dodici con la toga da magistrato.
Il giornalista Walter Tobagi, destinato a essere ucciso a sua volta il 28 maggio 1980, scrisse il 30 gennaio sul Corriere della Sera che Emilio Alessandrini era
«il prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare. (…) Era un personaggio-simbolo, rappresentava quella fascia di giudici progressisti ma intransigenti, né falchi chiacchieroni né colombe arrendevoli».
Anche i terroristi scriveranno su Alessandrini, in una delirante rivendicazione di quell’omicidio, che
«era una delle figure centrali che il comando capitalistico usa per rifondarsi come macchina militare o giudiziaria efficiente e come controllore dei comportamenti sociali e proletari sui quali intervenire quando la lotta operaia e proletaria si determina come antagonista ed eversiva».
Ma non si rendevano conto che ne esaltavano la statura morale e professionale nel passaggio in cui sottolineavano che era
«uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito in questi anni a rendere efficiente la Procura della Repubblica di Milano».
Emilio Alessandrini non era un semplice magistrato: era un uomo di Stato, che lo difendeva dagli attacchi eversivi degli “anni di piombo”; era un uomo che intendeva la magistratura come servizio e la Legge come strumento di civiltà. Ai suoi funerali, in piazza Duomo a Milano, c’erano duecentomila persone: non solo per lo choc emotivo di quell’omicidio, ma soprattutto per il valore della persona. Il suo assassinio fece percorrere l’Italia da un moto di orrore e di sdegno, oltre che di dolore e di sgomento. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini, usò la proverbiale schiettezza nel dire:
«Emilio Alessandrini non è stato protetto, questa è la triste realtà che non solo mi sgomenta. (…) Alessandrini era un uomo che stava indagando sul terrorismo, aveva fatto il processo sulla Strage di Piazza Fontana e contro le Brigate Rosse, aveva rilasciato un’intervista a un giornale dove aveva fatto questa diagnosi sul terrorismo, ma non aveva nessuna scorta. Si dice che pare l’abbia rifiutata, ma anche se l’avesse rifiutata, la scorta doveva comunque averla, su questo non v’è dubbio. Perché l’uomo, il giudice, era ormai nel mirino delle Brigate Rosse. (…). La magistratura è quella che ha pagato il prezzo più alto. E questo noi non dobbiamo, permetterlo, signori. Dobbiamo fare di tutto per impedire che la delusione e lo sgomento entrino nella magistratura. Perché se per caso la magistratura dovesse venir meno ai suoi compiti fondamentali perché demoralizzata o avvilita io non so dove andrebbe a finire questo nostro Stato».
L’Italia si dibatteva nelle convulsioni della lotta armata, dell’eversione, degli attentati. Quel periodo venne definito “Gli Anni di piombo”, il materiale di cui erano fatte le pallottole di formazioni terroristiche di destra e di sinistra che mettevano a dura prova la tenuta della Repubblica e dello Stato di diritto: 10 morti nel 1976, 13 nel 1977, 35 nel 1978. Una scheda e tre foto di Emilio Alessandrini erano state rinvenuta il 13 settembre 1978 a Milano, nel covo di Prima Linea, organizzazione per la lotta armata di estrema sinistra. C’erano pochi dubbi che fosse diventato un obiettivo da colpire, poiché la sua storia parlava per lui: era il magistrato della Procura di Milano che aveva scavato nella “madre di tutte le stragi”, ovvero l’attentato alla sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, assieme ai colleghi Gerardo D’Ambrosio e Luigi Fiasconaro. Lui aveva aperto le inchieste sul terrorismo, sugli scandali finanziari del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, sulla cosiddetta “strategia della tensione”.
Il sacrificio di Emilio Alessandrini contribuì a isolare il terrorismo che voleva rifondare lo Stato con l’energia devastante della violenza sui pilastri del terrore e sul sangue di innocenti. La sua figura, ben oltre il ricordo per noi doveroso, si staglia come baluardo della libertà e della democrazia messe a così dura prova in un periodo che ci ha segnati tutti. Se i nostri valori sono stati protetti e si sono riaffermati come barriera invalicabile della società civile contro ogni delirio di negazione, lo dobbiamo a uomini come lui. E noi abbiamo sempre bisogno di uomini come Emilio Alessandrini».

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